La strage fascista avvenuta al Caffè Roma nel racconto di Eugenio Cecchi, figlio di un sopravvissuto.
Ringraziamo Eugenio Cecchi per l’accurato racconto della strage del Caffè Roma, una delle pagine più nere di storia cervese. (qui, invece, trovate la ricostruzione dei fatti da fonti letterarie).
ANTEFATTO
Dopo l’8 Settembre del 1943, mio babbo Cecchi Giovanni, scappando da Udine dove faceva il servizio militare in Artiglieria, era tornato a Cervia, a piedi e con mezzi di fortuna fra cui anche una bicicletta senza copertoni, viaggiando quasi sempre di notte per sfuggire ai posti di blocco e ai rastrellamenti dei tedeschi, con un suo commilitone di Russi.
Rimase nascosto per diversi giorni a Lido di Savio in un capanno di frasche in pineta usato come ricovero per le pecore, era poi tornato a Cervia per aiutare Eugenio Tassinari, che aveva sposato sua sorella ed era rimasto vedovo prima della guerra con tre figlie, nel mulino e nel forno che aveva in Via Ospedale
LA STRAGE DEL CAFFÈ ROMA
La sera di Lunedì 20 Marzo si erano dati appuntamento al Caffè Roma per prendere un caffè prima di andare a lavorare al forno. Mio babbo, entrando da Porta Cesenatico, aveva notato un movimento di automezzi fascisti e dei militi delle Brigate Nere che stazionavano nel Corso presso l’albergo Allegri. Pensò ad un’azione di controllo dei documenti, ma tutti e due, in quanto fornai, avevano il permesso per circolare anche di notte ed erano abbastanza tranquilli. Solo in seguito venne a sapere che, in circostanze peraltro mai chiarite, c’era stato un conflitto a fuoco nel quale aveva trovato la morte il milite fascista cervese Meldoli, e che da alcune ore era arrivato a Cervia un gruppo di fascisti delle Brigate Nere provenienti dalla Rocca delle Camminate, con quali compiti e scopi anche questo non è mai stato chiarito.
Né prima di entrare, né quando era già all’interno del Caffè Roma ricorda di aver sentito spari o detonazioni, quindi non trova credito la versione che attribuisce la morte del milite fascista al lancio di una bomba a mano ad opera di ignoti. Una ricostruzione dei fatti dice che i fascisti, per reazione all’uccisione di un loro milite, avvenuta poco prima nel Corso, decisero di effettuare una immediata rappresaglia. Si diressero verso il Caffè Roma e, aperta la porta, spararono una raffica di mitra a ventaglio dentro il locale.
Ad essere colpiti furono Eugenio Tassinari (Eugenio e non Gino come riportato da “Cervia ore 6” a pag. 95) Aldo Evangelisti, Attilio Valentini e Gianni Venturi.
Mio babbo, molto esile di corporatura, che si trovava al banco del bar con a fianco Tassinari, rimase miracolosamente illeso ma fu travolto dal corpo di Tassinari e cadde a terra fra i morti e i feriti e coperto di sangue, e lì rimase in quanto fu creduto morto.
I fascisti, almeno due, fra cui Gino Casalboni, l’autore della strage che mio padre conosceva di fama come “una canaja” (una canaglia), sempre dalla porta, esplosero una seconda raffica per finire eventuali feriti, poi, dopo aver chiuso la saracinesca, si allontanarono. Solo allora mio babbo, scavalcando i morti, riuscì a fuggire passando da una porticina sul retro del locale che dava in un piccolo passaggio interno. Una volta fuori dal locale sentì le voci dei fascisti che erano ancora presenti in forze nella piazza e nel Corso, vide anche un automezzo che perlustrava le strade del centro, quindi non riuscì a fuggire verso la sua abitazione che era sulla statale che andava a Cesenatico, ora Via Caduti per la Libertà, ma si diresse verso il forno e si nascose nel ripostiglio sul retro del mulino, affacciato sul canale, dove conservavano delle fascine di legna coprendosi con queste.
Anche nei giorni successivi rimase nascosto nel timore di essere rastrellato dai fascisti che effettuavano i controlli sui movimenti delle persone che entravano e uscivano dal centro di Cervia. Fu aiutato da sua sorella Maria che, non vedendolo tornare e informata su quanto era successo, era andata a cercarlo al forno e gli portò poi dei vestiti puliti e del cibo. Maria faceva l’infermiera nel vicino ospedale ed era collega di Ida Paganelli, la staffetta partigiana che aveva contatti con gli antifascisti locali, inoltre aveva il lasciapassare per poter circolare liberamente sia di giorno che durante il coprifuoco.
L’AGGUATO AI CUGINI FANTINI
In attesa di poter trovare il momento opportuno per lasciare Cervia era ancora nascosto nel ripostiglio quel famoso giovedì 23, quando i fascisti uccisero i cugini Fantini che da Castiglione stavano arrivando in bicicletta per partecipare ai funerali delle vittime del Caffè Roma.
Era il primo pomeriggio quando sentì delle urla, delle grida, poi una voce su tutti che gridava in dialetto “Ammazzali tutti” poi una lunga raffica di mitra seguita da altre più corte. Dal luogo dove era nascosto mio padre non aveva una buona visuale, ma a sua memoria i due Fantini furono uccisi all’altezza dello stallatico che si trovava dove ora c’è Shanga Tattoo & Piercing. Il gruppo dei fascisti che controllava il ponte era disposto sia sulla sponda verso Ravenna che sull’altra, ma a sparare fu il gruppo che era sulla sponda ravennate. Solo a tarda notte, costeggiando il Canale fino alle Saline, riuscì ad allontanarsi e a raggiungere Savio dove trovò rifugio. Tornò a Cervia solo dopo l’estate, quando ebbe la sicurezza che nessuno lo aveva riconosciuto e i fascisti non lo stavano cercando.
A suo dire Meldoli, il milite fascista ucciso, non era un fanatico violento o una persona che si era macchiata di particolari crimini, lo definì un poveraccio che per campare era andato “nella Repubblica”.
Eugenio Cecchi